Ho come la sensazione che se tutti leggessero il reportage di Navid Kermani, saremmo tutti un po’ più consapevoli del mondo che c’è lì fuori. Esagerazione?, forse, ma è solo l’entusiasmo per aver letto qualcosa di interessante sotto una prospettiva nuova e a dir poco sconcertante. Navid Kermani è un giornalista iraniano naturalizzato tedesco, corrispondente di guerra. Tutti i capitoli di Stato d’emergenza sono articoli di giornale che ha pubblicato negli ultimi vent’anni in seguito ai suoi viaggi in Medio Oriente, a lui già caro non solo per le sue origini ma anche per gli studi orientalisti universitari.

Questa premessa mi supporta nel dire che non avrete dinanzi un reportage scritto da un semplice studioso, o da un occidentale, o da un pregiudizievole “esterno ai fatti”. Leggerete le pagine scritte da un musulmano che vive in Occidente e che va in ogni posto di cui scrive, parla con le persone e le racconta, senza abbellimenti e senza drammi. Descrive le cose per come sono, nude e crude, e ciò che emerge dall’enorme orrore della guerra è che tutti quei popoli feriti, dilaniati, sfiniti, avrebbero solo bisogno, e soprattutto voglia, di pace.

Non c’è pathos nel racconto di Kermani, ma una lucida interpretazione politica di quelle guerre che a noi sembrano così lontane e di cui ignoriamo retroscena e conseguenze. Ecco perchè Stato d’emergenza è più che mai attuale e utile nell’andare oltre tutto ciò che ci viene filtrato, semmai viene nominato, attraverso i (di parte) media occidentali.

Scorci di terre in guerra

Kermani inizia a gamba tesa, atterrando in Kashmir, terra di troppi e di nessuno, divisa tra India, Pakistan e Cina. Era il 1947 quando iniziarono i conflitti e da allora il popolo non ha mai avuto tregua, fino ad oggi, giorno in cui scrivo. In maggior parte musulmani, migliaia di abitanti si sono trovati in una India induista, intransigente e nazionalista, in una nazione che ha schierato circa seicentomila soldati in città: per gli indiani è una guerra al terrorismo (dei pakistani), per il popolo, riflette Kermani, è un’occupazione militare. La resistenza in Kashmir adesso non conta neanche il 5%, e Kermani descrive un paradiso ormai devastato, in cui ogni edificio presenta segni di proitettili, in cui manca del tutto la corrente elettrica e gli attentati sono all’ordine del giorno. I kashmiri stessi si dichiarano stanchi, tanto quanto la nuova generazione che non ha conosciuto altro che la guerra.

Non meno preoccupante è la situazione descritta in India, uno stato in ascesa dove in realtà il progresso è nelle mani di pochissimi, mentre ben 750 milioni di persone vivono in condizoni di povertà estrema. Ogni sono dodicimila i contadini che si suicidano, perchè si vedono sottratta la terra e finiscono in miseria. Tutto questo ci viene raccontato attraverso le voci di coloro con cui Kermani chiacchiera, gente comune e politici, ministri e senzatetto. Così in coro scopriamo situazioni politiche ed economiche invivibili, tragiche, e Kermani è bravissimo nello svelare la corruzione di tanti, l’impotenza di molti altri ancora. E viviamo i racconti della strage del 2002 in Gujarat, a nord dell’India, in cui sono stati uccisi con una brutalità inaudita circa duemila musulmani, per mano di induisti (nazionalisti). Bande armate organizzate dallo Stato, uno Stato che in ogni reportage di Kermani è sempre così strategico e manipolatore, inetto oppure corrotto.

Il Pakistan, conosciuto oggi per il terrorismo, i talebani, l’estremizzazione, in realtà è uno dei Pesi del mondo islamico in cui prevale la mistica, la quale rifiuta la violenza e promuove la tolleranza. Kermani ci descrive una Lahore una volta terra feconda di cultura, musica, festival teatrali e letterari, impossibile da immaginare adesso: pensare a un mondo del genere sembra quasi un sogno di gioventù, privilegio solo dei più anziani.

Non mancano ovviamente riflessioni, pagina dopo pagina, sui pluri interventi americani, o comunque in generale degli occidentali dall’onnipresente tracotanza, portatori di pace e manipolatori supremi. Sono i bombardati, o i carnefici stessi, a sapere meglio di chiunque altro quanto l’influenza degli “stranieri” possa pesare, in positivo o in negativo. Lo si capisce bene in Afghanistan, dove nel 2006 la guerra contro i talebani impazzava.

L’Afghanistan senza pace

“Durante il mio viaggio, ogni giorno qualche kamikaze si fa saltare in aria”, racconta Kermani. All’arrivo all’aeroporto i visitatori devono indossare giubbotto antiproiettile e elemetto. Il problema in Afghanistan, secondo il giornalista, non è la presenza degli occidentali in sè, ma la loro insufficiente disponibilità a essere presenti il tempo necessario per ricostruire un paese di tali dimensioni.

Non è assurdo pensare che il 99% delle merci disponibili sul mercato afghano viene dall’estero? Non è inconcepibile che le sanzioni più gravi per le aziende occidentali in loco consistano soltanto nel trasferimento in elicottero a Kabul, seppur ci si macchi di omicidio? Che Kabul abbia un milione di abitanti e che l’elettricità ci sia solo tre ore al giorno? Tutti i soldi che arrivano in Afghanistan confluiscono nelle economie dei paesi donatori, riflette Kermani. E allora era meglio prima, con i talebani? Quando si finiva in carcere solo per aver ascoltato della musica, o per non aver fatto crescere la barba fino al petto, o per aver avuto rapporti pre matrimoniali? No, probabilmente, ma non è mica così semplice la risposta. Commovente il dialogo con un uomo che vive al cimitero: mentre cercava un riparo per la famiglia, una bomba ha ammazzato sua moglie e i suoi cinque figli.

Con i talebani avevo più soldi, perchè davano l’elemosina. Oggi perfino durante il ramadan ci sono sere in cui non riesco a dormire per la fame.

E allora perchè oggi sarebbe meglio?, insisto.

Perchè ora siamo liberi, ribatte Nur Agha. Nessuno mi dice cosa fare e cosa dire e come devo portare la barba.

Un tempo pensavo che la salute fosse la cosa più importante“, racconta un maestro in pensione. “Ma poi mi sono reso conto che essere sani non serve a niente se non c’è la pace: a che scopo si dovrebbe voler vivere in guerra?

La guerra afghana è sporca, perchè gli abitanti dei villaggi sono costretti a “ospitare” i talebani, a nasconderli sotto minaccia, perchè se non collabori ti uccidono all’istante, eppure finisce che arrestino anche loro, anche gli innocenti. Kermani racconta tanto, soprattutto della politica, dei tentativi di riconciliazione, dei fallimenti. Dopo 34 anni di guerra, l’80% degli afghani ha problemi psichici.

Ha girato le scarpe e le ha messe con i tacchi rivolte verso il tappeto. In Afghanistan si fa spesso, perchè così quando gli ospiti se ne vanno, si infilano le scarpe più velocemente. Anche per gesti come questo il mondo dovrebbe dedicare più attenzione all’Afghanistan.

Medio Oriente in fiamme

A Theran approdiamo in piena ribellione per le elezioni truccate del 2009. Studenti e manifestanti uccisi, paura e repressione lì dove l’attuale Repubblica Islamica, in seguito alla rivoluzione del 1979, è governata da religiosi sciiti. Molti dei manifestanti sono i figli di quelli che erano pronti a dare la vita per uno Stato Islamico, in effetti.

Come si effettua la repressione? Vietando ai giornalisti di inviare materiale all’estero, riducendo la connessione internet dei telefoni e, naturalmente, con la paura. Kermani ci parla di un Iran ricco di contrasti, data la “teocrazia islamica” prevede sì una Costituzione, ma al cui governo ci sono i religiosi.

Iraq, nel 2014: secondo Kermani, a Baghdad sembra che il futuro sia finito. Viene citata la vicenda denominata Ali Baba, in cui durante la razzia (nel 2003) di un antico palazzo del governatore, un americano incitava gli sciacalli dicendo “Go in, Ali Baba, it’s yours”, cancellando cinque millenni di storia irachena. La situazione in Iraq è drammatica, difficile, pericolosa.

Come va?… Se uno di Baghdad ti dice che va bene, di sicuro sta mentendo.

In Palestina (e dov’è?) Kermani ha avuto la consapevolezza di non riuscire (più) a restare imparziale di fronte alla violenza e ai sorprusi isrealiani, i quali hanno innalzato un muro per non vedere cosa c’è dietro ( e le loro colpe), ossia tutti i palestinesi da loro considerati allo streguo di bestie. Non ci credete?, chiede Kermani. E allora racconta di un soldato che gli ha chiesto ironicamente se fosse un veterinario.

E non si ha bisogno di molte parole la Siria, “la porta dell’inferno” già nel 2012, figuriamoci adesso.

È inevitabile che a fronte della violenza da parte del governo una parte del movimento abbia finito per impegnare le armi, eppure…, al-Shaarani esita perchè evitare la parola errore “non è stato giusto, perchè era proprio quello l’obiettivo del governo, dichiarare terroristi i rivoluzionari e colpirli ancora più duramente.

Persone dichiarano, prove alla mano che il piano dell’Occidente era distruggere la Siria e ricostituirla a propria discrezione. “Non crede che vogliano rendere la Siria un secondo Iraq?“, chiedono a Kermani. Ricordando inoltre che in entrambi i paesi si è verificato un vero e proprio genocidio dei cristiani. Un islamista intervistato teme che se il governo continua a puntare sulla violenza cieca e sullo spargimento di sangue, anche la popolazione non potrà che radicalizzarsi.

Ho paura per il mio paese e ho paura per la mia religione.

Reportage perchè

Abbiamo bisogno di questi libri perchè mettono insieme riflessioni e reportage che forse normalmente non riusciremmo a scavare in giornali e riviste; perchè danno voce a tutti, agli sconfitti e ai vincitori, lì dove ce ne siano, agli estremisti e ai civili. E ne abbiamo bisogno per ricordarci quanto siano limitate le informazioni che ci arrivano, con quali filtri, e soprattutto ci invitano a riflettere sul perchè. Sull’importanza della politica, dei soldi e del potere. Su quello che potremmo o non potremmo fare, sul valore della vita umana. Su quello che noi, da questo lato del mondo, abbiamo per nascita e non per diritto, perchè di diritto non si può parlare finchè nel mondo ci saranno città bombardate e devastate, torture e incarcerazioni, persecuzioni e distruzioni. Forse dovremmo pensare non soltanto di essere fortunati ma di dover fare qualcosa, se anche fosse solo tentare di capire e dare spazio a chi la voce non ce l’ha.

Lascia un commento