La recensione de Le sere di Gerard Reve mi appare quasi superflua, come accade per i romanzi che bisogna necessariamente leggere in prima persona per poterli comprendere a pieno. Ed è anche un libro che, iniziato con fatica, è rimasto a frullarmi nella testa impedendomi di iniziarne di nuovi.
“Bella serata”, disse Fritz. “Anche a te piace far visita all’infelicità di questo mondo? Anche tu ami passeggiare la domenica nei cimiteri? La maggior parte della gente non pensa mai a niente.”
Il protagonista di questo nuovo testo Iperborea è Fritz, un ragazzo di ventitré anni dall’ironia tagliente, che si aggira per Amsterdam raccontandoci le sue serate. Mi ha ricordato un po’ il protagonista di Fame di Knut Hamsun, per la costante immersione nei pensieri quotidiani del personaggio in tempo reale. Considerato uno dei capolavori della letteratura olandese, mi ha fatto pensare che l’inquietudine esistenzialista di Fritz (anno di pubblicazione: 1947) sia l’eco di quel filone letterario la cui pietra miliare è La nausea di Sartre (1938), anche se l’autore ha in realtà dichiarato di essere un vero appassionato di Arthur Schopenhauer (e la cosa non mi sorprende).
Fritz è profondamente disperato e utilizza lo strumento affilato del sarcasmo per relazionarsi al mondo. Ossessionato dalla calvizie maschile, sfacciatamente schietto con gli amici, profondamente intollerante nei confronti dei genitori, sente che ciò che fa nella sua vita sia soltanto riempire il tempo.
Andò a sedersi sul divano e si mise a contemplarsi le scarpe. Sentì un treno sbuffare in lontananza. “Così passa il nostro tempo”, pensò.
Il tormento della percezione della vacuità dell’esistenza si nasconde dietro ogni avvenimento, ogni scambio di battute, ogni rigo, e il tentativo di Fritz è quello di riempire il vuoto con parole, quando è con gli altri e sente la necessità di parlare anche se non ha niente di interessante da dire, e di azioni, come accendere la radio e passeggiare e andare al cinema. Ma alla fine, dopo ogni sera così riempita, resta in lui la sensazione di stare sprecando in qualche modo la sua vita, pur senza avere di idea di cosa significhi non sprecarla: perchè la realizzazione di Fritz è che la vita è esattamente questa, un accumulo di momenti insignificanti a cui tentiamo di dare ordine e senso.
Questa consapevolezza si declina in momenti di tormentosa noia, nei pomeriggi lunghi e infiniti; in attimi di forte commozione, al pensiero che sua madre ormai invecchiata abbia speso molti soldi pensando di comprare del vino per poi portare a casa del succo di frutta; in una dilagante frustrazione, dopo le serate con i suoi amici inutilmente in cerca di stimoli, come lui.
Fritz sono io, per dirla tutta, e Fritz è il simbolo di un’umanità che ha perso nell’Altro, nella società, ogni punto di riferimento. Mi pare che la grandezza di Gerard Reve stia proprio nel sapere raccontare la condizione esistenziale dell’uomo smarrito nella perdita di senso.