le case del malcontento punto nemo

La provincia di Sasha Naspini

Le Case del malcontento è un mondo provinciale nel quale si scivola attraverso un linguaggio che, nella sua autenticità, sembra appartenere a quel posto indissolubilmente. Spesso rude, potente, elaborato nella sua onestà provinciale, lo stile di Naspini aggancia e ferisce, sorprende e regala.

Le Case, paese senza speranza raccontato dai suoi abitanti linguacciuti, parla esso stesso in prima persona: un borgo millenario scavato nella roccia dell’entroterra maremmano, destinato ad auto estinguersi, terra di esseri sgraziati e disgraziati, prende la parola per dare vita a storie dannate da svelare a poco a poco.

Le Case del malcontento è un agglomerato di vite, di micro universi, che sono l’unione di punti che creano una sola linea comune. Sono tante voci, le malelingue, i punti di vista che mi mescolano per dare il quadro di un unico posto tanto immaginifico, per il labirintico snodarsi delle storie, quanto squallido per il suo essere immobile e uguale a se stesso, la provincia che mangia i suoi abitanti poveri di spirito e di denaro.

Le Case è un posto che ti chiude l’anima.
Le Case è un cuore nero piantato in mezzo al pancione di Maremma, che si traveste piena di sogni e dopo te lo ficca nel didietro a brutto muso.

Sacha Naspini dà vita alla provincia come mai mi è capitato di leggere prima d’ora, neanche con i tentativi di Silvia Avallone. E lo fa con l’abilità e l’esperienza del narratore capace di tenere incollato il lettore in un crescendo di suspense. Perché dietro le personali vicissitudini dei personaggi, tutti a proprio modo disperati, c’è la rottura della norma con il ritorno di Samuele. Di lui non si sa nulla, anche se tutti ne parlano e hanno da spendere qualche malignità su di lui.

La trama ruota attorno a lui senza che gli sia data mai la parola, se non per il gran finale, e questo espediente crea una tensione via via crescente che si regge nonostante le digressioni tortuose dei personaggi, protagonisti più di lui. Altro regnante in Le Case del malcontento è la miseria, capace di divorare sogni e bontà per vomitare fuori angoscia e invidia, da cui tutti tentano di scappare ignari di starsela cucendo addosso. Samuele, descritto dagli occhi di ognuno, diventa un puzzle che non si finisce mai di ricostruire.

La prosa di Naspini sembra incantata nella sua capacità di costruire le mura delle prigioni in cui si girano e rigirano i personaggi nelle loro afflizioni, in un male di vivere che non è mai direttamente legato alla natura delle cose, ma che fa continuamente riferimento all’abbandono come fattore scatenante della pena umana.

La perdita dell’amore, la perdita di un caro, la perdita di privilegi, la sofferenza per fame, una politica inesistente, un lavoro sfiancante privo di soddisfazioni economiche e di sicurezza, queste sono le forme dell’abbandono che ci fanno approdare alle Case del malcontento, un malcontento corale che non è mai solidale ma sempre individuale.

I nani, la cartomante, la vedova, il minatore, il medico e il parroco, infami, bugiardi, avidi o solamente desiderosi, abitano Le Case tanto quanto Le Case abita in loro.

Eppure basterebbe un niente. Se Le Case ti insegna qualcosa è che per stare bene ti devi accontentare di poco. Le Case ti massacra in fasce, togliendoti di mano le belle aspettative che uno si fa della vita, e a quindici anni ti vedi lì, sempre nei tuoi panni che già senti un po’ stretti. Se non hai il modo o il coraggio di lasciarti questa rocca alle spalle, ti ritrovi a guardare i muraglioni del paese vecchio da una prospettiva diversa: prima erano le porte da oltrepassare per andare al mondo. Ora ti imprigionano, e invece di farti luccicare gli occhi ecco che ti troncano il fiato. Allora cominci ad abbassare la testa.

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