Tutti vivevano di pensieri di fuga.

Il paese delle prugne verdi di Hertha Müller è un romanzo difficile, bellissimo, poetico e triste, che ha fatto vincere all’autrice il premio Nobel nel 2009.

Mio padre, diceva Georg, ha portato con sè la bicicletta in stazione, in modo da non dover camminare tanto accanto a me all’andata e da non dover sentire con le mani, al ritorno, che stava tornando a casa da solo.

Tutto si svolge a Bucarest, nella Romania di Ceausescu. Molto di ciò che accade lo si intuisce soltanto nel decifrare la prosa complessa dell’autrice. C’è Lola, che viene violentata dal professore di ginnastica e cade nello sconforto. La ragazza finisce per suicidarsi impiccandosi con una cintura, e il Partito Comunista la espelle rinnegandola. In una riunione in aula magna tutti sono costretti ad assentire.

Solo coloro che erano diventati pazzi non avrebbero alzato la mano nell’aula magna. Avevano scambiato la paura con la follia.

L’atmosfera è quella di terrore. Dittatura è mancanza di libertà, senza via di uscita. Dittatura è sospetto, paura, ingiustizia. La voce narrante in prima persona è quella di una ragazza appartenente allo stesso dormitorio e studentato di Lola. Insieme a Edgar, Georg e Kurt – i protagonisti di questo romanzo grigio – tenterà di capire cosa è successo a Lola. Ma sarebbe un errore immaginare Il paese delle prugne verdi come la misteriosa ricerca di un colpevole o della verità. Hertha Müller, con la sua scrittura visionaria, dà spazio all’immaginazione e all’interpretazione, ma un elemento del romanzo resta di univoca comprensione: dalla dittatura non escono vinti e vincitori, solo morti e fautori di cimiteri.

Se uno, solo perchè cammina, mangia, dorme e ama qualcuno, fa cimiteri, allora è un errore più grande di noi. Un errore per tutti, un errore enorme.

I personaggi, di lingua tedesca, vengono minacciati, sono succubi di atti intimidatori e interrogatori, perfino di ispezioni, ma hanno una sola cosa che li spinge ad andare avanti: il loro legame. La loro speranza di farcela.

Poichè avevamo paura, Edgar, Kurt, Georg e io stavamo insieme ogni giorno. Stavamo seduti al tavolo, ma la paura rimaneva isolata in ogni testa, così come ce la portavamo dietro quando c’incontravamo. Ridevamo molto, per nasconderla gli uni agli altri. Perchè la paura svicola. […] Spesso non ci sopportavamo, perchè dipendenvamo gli uni dagli altri. Dovevamo offenderci.

La protagonista, Edgar, Georg e Kurt comunicano tra loro consapevoli di essere costantemente spiati. Per verificarlo, lasciano capelli nelle lettere. Sulle valigie. Se i capelli scompaiono, capiscono di essere stati controllati. Le poesie sono bandite dal regime, non si inneggia ai sogni, non si parla di un futuro altrove. L’arte è proibita, se non conforme al regime. E le persone scompaiono, di volta in volta.

Pensai che Edgar, Kurt e Georg, poichè scrivono poesie, scattano fotografie e intonano un canto qua e là, accendono l’odio in coloro che fanno cimiteri.

I quattro ragazzi aspettano solo il loro turno, piegati dal dolore e dall’ansia. Le morti, spacciate per suicidi, si susseguono, e intanto i protagonisti sono costretti a nascondere i loro oggetti (libri, semplici scritti) in luoghi insospettabili, rischiando la vita di continuo.

Il dittatore è ovunque. Onnipresente, immortale, e “a ognuno passava per la testa il cadavere del dittatore, come la propria vita rovinata. Tutti volevano sopravvivergli”, scrive la Müller, che tanto aggiunge della propria vita a Il paese delle prugne verdi. La potenza di questo romanzo sta nella forza delle parole che diventano immagini, nei minuscoli dettagli.

Ogni notte devo chiedermi se il giorno arriverà.

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