il libro Fame di Hamsun

A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni…

*Christiania è l’attuale Oslo

Siamo solo a inizio agosto eppure credo di poter definire Fame il libro della mia estate, pur avendolo letto in due giorni soltanto. Lettura non da mare, effettivamente, ma chi dice che all’ombra di un albero e a riva, con i piedi bagnati dalle onde, non ci si possa cimentare in letture se non impegnative quanto meno intelligenti? Oltre al fatto che ho scelto questo autore per una storiella quasi cinematografica.

Ero a Bologna, mi ferma un ragazzo per strada, all’improvviso, con un libro in mano e mi dice che è assurdo che non abbia letto Knut Hamsun: e quindi l’ho comprato. Fame è arrivato a me da un incontro puramente casuale.

L’ho iniziato pentendomi di averlo trascinato con me in vacanza, il giorno dopo l’ho chiuso con un senso di commozione e affetto. Ecco perché Hamsun è un premio Nobel, ho pensato. Per quanto, breve parentesi, le simpatie filonaziste dell’autore non mi avessero certo incoraggiato nell’acquisto. Fame é il racconto emozionante di uno scrittore non squattrinato, ma ben oltre la miseria e continuamente sull’orlo della fine. Il protagonista impiega poco a farsi amare con il suo incommensurabile senso della dignità, la sua generosità e una non voluta ironia. Un tempo uomo con la possibilità di procurarsi un tetto e del cibo, mano a mano ha perso tutti i suoi averi fino a ridursi letteralmente alla fame.

I tanti rifiuti, le promesse dette a mezza voce, i tanti no, le speranze illusorie di cui m’ero per tanto tempo nutrito, i nuovi tentativi, che ogni volta si dimostravano vani, avevano fiaccato il mio coraggio.

La solitudine dell’emarginato

La fame è il filo conduttore del romanzo. La fame che perseguita il nostro protagonista, che lo costringe a sentirsi umiliato e folle. Che lo mette in guerra con la stanchezza, ma anche e soprattutto con il suo orgoglio. Ecco perché chiedere aiuto gli è penoso e insopportabile, ecco perché al banco dei pegni e in giro per strada inventa umili bugie e teatrali spiegazioni per giustificare la sua condizione misera. E ingiusta, aggiungerei.

Vedo davanti agli occhi una danza di stelle e il mio pensiero guizza in un turbine di luce… 
Così annegai in un sonno profondo. E la guardia mi scrollò per svegliarmi e così fui riportato spietatamente alla vita e alla miseria. La mia prima sensazione fu un ebete stupore di trovarmi all’aperto. Ma ben presto fui preso da un amaro disgusto. Mi venne da piangere per il dolore di essere ancora vivo. Mentre dormivo era piovuto. Avevo gli abiti fradici ed ero scosso da brividi di freddo. Il buio era quasi impenetrabile. Riuscivo appena a distinguere il viso della guardia. 
«Forza dunque!» disse la guardia. «In piedi e in marcia!». 
Mi alzai subito. Se mi avesse comandato di ributtarmi giù, avrei obbedito allo stesso modo. Ero distrutto, non avevo più alcuna forza. E quella fame che mi tormentava! 
«Ehi, voi! » mi gridò la guardia. «Aspettate un momento! Idiota! Avete dimenticato il cappello. Bene… e ora via! Filate!». 
«Pareva anche a me di avere… non so, di aver dimenticato qualche cosa» balbettai trasognato. «Grazie. Buona notte». 
E mi allontanai barcollando.

C’è dell’ironia nell’atteggiamento dello scrittore, in preda al delirio, tra i pianti della disperazione e la gioia furente e improvvisa, anche solo per le ispirazioni per scrivere un nuovo pezzo. Ogni sua emozione è visceralmente legata alle sue sensazioni corporee, ad ogni pensiero o sentimento corrisponde una fisicità o status ben preciso. Mi ha ricordato il Raskol’nikov dostoevskiano, per quanto il protagonista di Fame é non dilaniato dal senso di colpa bensì dalla vergogna della propria condizione, di cui si rimprovera compiangendosi e punendosi, talvolta rallegrandosi per frivolezze e talvolta finendone annientato.

In fondo avevo un’anima piuttosto sensibile, osservai, e non per questo era necessario che fossi pazzo. Ci sono certe nature che si addolorano per delle sciocchezze e possono morire per una parola aspra.

Gli altri personaggi si rivelano per lo più incapaci di empatia e generosità, esterni giudici sprezzanti, talvolta, grotteschi. Il punto di vista allucinato della voce narrante ci conduce nei meandri di una vita ai limiti eppure capace di essere tremendamente bella, pur con lo stomaco contratto e le gambe tremanti. In uno stato perennemente confusionario, il protagonista incarna l’emarginato sociale che neanche tenta un riscatto sociale, poiché ciò che gli interessa non è l’integrazione ma la scrittura; eppure della sua emarginazione soffre grandemente, entusiasmandosi per poco e donando in beneficenza le poche corone ottenute, oppure lasciandosi deperire su una panchina in un parco. Egli preferirebbe morire piuttosto che rubare, macchiarsi di viltà e di colpe, perchè ciò che gli resta è un buon cuore, un cuore grande e traboccante di sentimenti che gli permette di non abbattersi e di continuare a testa alta ad affrontare tutti i disagi quotidiani, quasi dettagli a cui qualcuno abituato ad avere la pancia pieno e un posto da chiamare casa non avrebbe neanche mai pensato.

Fame è un altalenante susseguirsi di riflessioni e stati d’animo che risucchiano il lettore in un vortice spaventoso di ansia e tenerezza, spingendoci alla riflessione sul confine tra la normalità e la pazzia, esortandoci a sfidare i costrutti sociali e le rapide sentenze, aprendoci a una magnanimità che assomiglia all’umanità che tutti dovrebbero sentire di avere. Un libro intenso da non dimenticare sullo scaffale.

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